POETRY OF THE FAMILY OF MONTEFELTRO WE shall here collect a few literary remains of personages connected with the family of Montefeltro, to whom we have alluded in early chapters of this work. They can scarcely now be considered of general interest, but they indicate and test that cultivation of letters among princely houses to which we have often pointed, and, coming from sources not generally accessible, will be welcome to literary antiquarians. The authors of whom we are to give specimens, may be thus arranged:— I. Antonio Count of Urbino, mentioned above at pp. 36-8. To him is ascribed a sonnet on Christ crucified, in a MS. of the Divina Commedia, at the royal library of Naples, and published in vol. II., p. 361, of the Giornale Arcadico of Rome, 1819. It is No. I. of our specimens, and but for its imputed authorship, might probably have remained unnoticed. II. Malatesta de' Malatesti, or, as he was more frequently designated, de' Sonnetti, was Seigneur of Pesaro, and second cousin of Sigismondo Pandolfo, Lord of Rimini. He was born in 1370, and died in 1429, leaving the reputation of an elegant poet. Several of his fugitive effusions are referred to by Crescimbeni, III., 225, who has printed one of his sonnets. Our selections are two others, Nos. II., III., moralising on the vanity and disappointments of life, from the Oliveriana MSS. No. 454, ff. 30, 31, and part of a canzone, No. IV., describing the charms of his love, from Vat. Urb. MSS. No. 3212, f. 128. His son married, III. Battista di Montefeltro, daughter of Count Antonio, and aunt of Duke Federigo of Urbino. We have spoken of her above at p. 39, and insert two sonnets from her pen, addressed to Malatesta, Nos. V., VI., the former an invocation of the Holy Ghost, the latter deprecating her own presumptuous spirit; also, No. VII., her letter to Pope Martin V., referred to at p. 40. A canzone, addressed by her to the princes of Italy in a fine tone of expostulation, will be found in Crescimbeni, III., 266. Her granddaughter, Costanza Varana, married, in 1445, IV. Alessandro Sforza, Lord of Pesaro, who has been often mentioned in our Second Book, and to whom is ascribed the sonnet No. VIII. below. He was father of Battista, second wife of Duke Federigo of Urbino, and of V. Costanzo, his successor in Pesaro, author of the last sonnet in this collection. Both of these lyrics have been given by Crescimbeni, V., 223-4. |
I sacri piedi, e l'una e l'altra palma Ti furo in croce, o Re del Ciel, confitti. Gl'invisibil nimici ivi sconfitti, E franto il giogo, e sposta la gran salma. D'esiglio librasti la prim' alma, E gli altri che con lei eran proscritti: Oggi purgasti i suoi primi delitti, Che me intendesser l'aula eterna ed alma. Quella pietÀ che in tal giorno ti mosse A salvar tutto 'l mondo, anco ti mova Verso un'altr' alma combattuta e vinta. Fragili e debil son le umane posse: A grandi assalti prostata si trova Se non È l'alma di tua grazia cinta. |
II.
El tempo, el quale È nostro, i' ho smarrito In vanitade, ho speso ogni mia sorte; Seguito ho il mondo, traditor si forte, Che giusta cosa È, ch'i' ne sia punito. Di fumo e vento i' fui giÀ ben formito, Et ora per ristor chieggio la morte, E la prosperitÀ chiuso ha le porte; Ingrato trovo ogn'uom' ch'i' ho servito. Or sia che vuole, i' sono al fin pur giunto, Intricato, et perplexo in tanto errore, Ch'i' vorrei ogni giorno esser defunto. O tu che leggi, pensa qual dolore Esser de' il mio, veggendomi in un punto Povero, infermo, vecchio e peccatore. |
III.
I son pur giunto carco, alla vecchiezza, Di peccati, dolor, pene, et affanni; Ch'il mondo traditor, con falsi inganni, M'ha privato di lume et d'allegrezza. O sciagurato me, ch'in tal lunghezza Ho consumato i giorni, i mesi, e gli anni: Ne mai ho posto a miei gravosi danni Fren di virtÙ, che dÀ somma richezza. Ohime, che tardi omai penso ritrarmi, La mal usanza m'ha si tratto al fondo Che gran fatica fia poter levarmi. Tu ben vedi, O Signor, che dal profondo Del core i' traggo i lagrimosi carmi, E sai il bisogno e 'l modo di salvarmi. |
IV.
Coralli, rose, perle, ebano e stelle Adornan la tua faccia, in ciel creata Nel cerchio triumphal, dove se eterna La mane eburnee, e l'altre membra snelle, In ciascun loco sua parte affirmata, Debitamente la parte superna. Io benedico la virtÙ paterna La qual produsse un si bel fructo al mondo, Che simil ne secondo VivÈ d'entro ne fuor da sette clima. Qual tesor, di che stima! Vale solo la terra o fermi il piede. La natura non diede Mai si grata influenza a creatura; Vergine bella, dolce, humile et pura. |
V.
Clementissimo Spirto, ardente amore Dal Padre Eterno, e dal Verbo emanante; Somma BenignitÀ, cooperante Quel mistero, ch'esalta il nostro cuore; Nella mia mente infondi il tuo timore, PietÀ, consiglio: e poi, somma Creante, Dammi fortezza, e scienza fugante Dall'alma nazional ciascuno errore. Solleva l'intelletto al Ben superno, Illuminando l' tanto che difforme Non sia da quella fe ch'al ciel ne scorge. Donami sapienza, con eterno Gusto di tua dolcezza, O Settiforme Si, ch'io dispregi ciÒ ch'il mondo porge. |
VI.
La tua superbia m'È di gran stupore, Alma presuntuosa et arrogante, Con tanto ardir la tua voce elevante, A quel sublime et immenso splendore. L'angelico consorzio, con fervore Il glorioso objetto contemplante, BenchÈ beato, pur vi sta tremante, E tu ardisci parlar senza rossore? Vuoi gustar qui l'aura del Ben eterno E non correggi la tua vita enorme? Ma del tuo vaneggiar Dio ben s'accorge. Il viver basso dunque prendi a scherno, Piangi, sospira amando, e segui l'orme Degli umil', a cui Dio la man sua porge. |
VII.
ILLUSTRISSIMÆ PRÆCLARISSIMÆQUE DOMINÆ BAPTISTÆ DE MALATESTIS [LITERA], AD SANCTISSIMUM DOMINUM PAPAM MARTINUM V., PRO SERENISSIMA EJUS SORORE DOMINA CLEOPHE, BASILISSA, NUPTA FILIO IMPERATORIS CONSTANTINOPOLITANI, QUÆ A VIRO SUO COGEBATUR SEQUI OPINIONEM GRÆCORUM.
Paveo equidem, Beatissime Pater, nec mediocriter vereor, cum inscia muliercula sim, tuÆ Celsitudinis aures inquietare incomptis eloquiis meis. Sed diuturnÆ ac incredibiles angustiÆ, illius videlicet fidelis ancillÆ tuÆ serenissimÆ sororis mei, necnon admirandÆ tuÆ clementiÆ fama quam in parte sum experta, oris claustra propulsant, maxime cum non pro sÆcularibus commodis tuam Sanctitatem decreverim exorare, immo pro animÆ salute quÆ pro integritate fidei CatholicÆ tot et tanta perpessa est, quanta neminem his temporibus sustinuisse cognovi. Quamquam igitur tui mi terreat magnitudo, visio tamen causÆ, quÆ me medullitus angit et afficit, tuaque benignitas et humanitas ausum prÆbent. Quapropter muliebri timiditate deposita, coram venerandis tuÆ Sanctitatis prostrata vestigiis, tandem humiliter et gemebunde deposco, ne animam, pro qua Dominus Jesus non recusavit
Venerabilis namque Pater, prÆsentium lator, Sanctitati tuÆ omnia serio ore expositurus adveniet, quem cum audiveris, nisi sis ex silice natus, aut hircanarum tigrium lacte nutritus, absque dubio movebuntur omnia viscera tua, solitaque pietate devictus, celerrime et benigne subvenies indigenti, minimeque hujuscemodi supplicatione opus erit in posterum, sed potius gratiarum actione apud Beatitudinem tuam, cujus pedibus me humiliter et instantissime recommitto.
VIII.
Io son si lasso, debilito, e stanco Sotto il gran fascio del terrestre peso, E tutto il ciel si mortalmente ho offeso, Che tra i sospiri lacrimoso or manco. Di dolor tremo, e di paura imbianco Come uom trafitto; il cor legato e preso In se raccoglie il tempo male speso, Ond esce il zel che gli percuote il fianco. Non mia pianeta o corso di mia stella, Non fato o mio destin, non mia fortuna, Ma solo incolpo la sfrenata voglia. Pero convien che, in solitaria cella, Le mie piaghe mortali ad una ad una Piangan mercede, con pentita doglia. |
IX.
Oh tu, che con tuoi versi si mi sproni, E con soavi rime e dolci canti, Dolendoti pur meco de' miei pianti, Et a mie' affanni mi conforti e moni. Se ti rincrescon, si come tu poni Le infinite mie angosce e i martir tanti, Non mi ricordar piÙ le doglie e pianti, E li sospir giÀ vani e i miei gran toni. Aime che ricordando si rinfresca I colpi, e le gran piaghe che nel core Io porto, per colei qual sempre invoco. E pure il gran desio mi tira all'esca, E quanto piÙ sgrupar mi sforza, allore M'intrico piÙ: e sempre ardo nel foco. |